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Le perdite su crediti

Le perdite su crediti sono deducibili, come regola generale, solo se si verifica la ragionevole certezza dell’impossibilità di recupero e la precisa quantificazione dell’importo non esigibile. Ciò premesso, tali condizioni ricorrono, in ogni caso, in presenza delle fattispecie in epigrafe identificate, oltre che nell’ipotesi di accantonamento al fondo rischi nel limite dello 0,50% dei crediti esistenti alla fine dell’esercizio, fino al raggiungimento del 5% del valore nominale dei crediti stessi. Quanto alle perdite su crediti verso soggetti sottoposti a procedure concorsuali, esse non devono essere contabilizzate, necessariamente, per intero nel periodo in cui la procedura si è aperta, poiché l’individuazione dei requisiti di certezza e determinabilità della perdita può verificarsi in un esercizio successivo.

Ebbene, un’ulteriore procedura, peraltro scarsamente utilizzata, che permette di dedurre ai fini fiscali la perdita di un credito che non è assoggettato a procedure concorsuali, non ha i requisiti della certezza quanto alla sua irrecuperabilità né è di “modesto importo” (2.500 o 5.000 euro e scaduto da oltre 6 mesi) è rappresentata dalla cd. dichiarazione di remissione del credito, così come disciplinata dall’art. 1236 e seguenti c.c. Trattasi, in sintesi, di un atto unilaterale recettizio: in altri termini, una volta che il creditore abbia notificato al debitore la volontà di rinunciare alla riscossione di quanto di sua spettanza, ricevendo risposta positiva o formatosi il “silenzio assenso”, il credito deve ritenersi legittimamente stralciabile, con valenza sia civilistica sia fiscale. L’impossibilità di ripensamento da parte del creditore, stante la natura dell’atto (unilaterale e recettizio, come sopra osservato), sottintende l’acclarata evidenza che l’importo non sia più recuperabile. Sotto il profilo operativo, la remissione può avvenire sia per atto pubblico, ossia redatto da un notaio, sia in forma di scrittura privata, da notificare alla controparte con data certa (Pec, raccomandata a/r in plico aperto, mediante messo notificatore). Nel caso di scrittura privata è opportuno che l’atto preveda un tempo congruo per la risposta (per l’accettazione o l’assai improbabile diniego da parte del debitore), oltre all’indicazione di un termine decorso il quale deve intendersi formato il silenzio assenso: ad esempio, fissando 15 giorni dalla ricezione dell’atto medesimo. In altri termini, il Codice Civile prevede che il creditore possa rimettere il debito attraverso una dichiarazione che estingue l’obbligazione, comunicandola al debitore, salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare. Alla dichiarazione deve essere allegato, qualora l’atto sia redatto dall’amministratore della società, il verbale del consiglio di amministrazione che ha deliberato in tal senso.

Anche la Cassazione (sentenze 29.08.2001, n. 11329 e 4.09.2002, n. 12831) ha ritenuto legittima la deduzione della perdita, poiché è condivisibile la giustificazione della rinuncia al credito qualora sussistano le seguenti ragioni:
l’inconsistenza patrimoniale del debitore;
l’inopportunità di agire esecutivamente nei confronti dello stesso, poiché la relativa procedura non avrebbe potuto che sfociare in un fallimento, dal quale la società avrebbe tratto non un beneficio economico, ma soltanto un pregiudizio commerciale.
In conclusione, rimettere il debito (questa volta non in senso evangelico) può produrre effetti positivi. Almeno sotto il profilo fiscale.